Il nostro gruppo di lavoro nasce nel 2011 con lo scopo di approfondire i contenuti della sociologia di Pierre Bourdieu e di verificare l’applicabilità degli strumenti metodologici e teorici elaborati dallo studioso francese in contesti differenziati. Ciascuno di noi, infatti, proviene da esperienze diverse di studio e ricerca ma tutti abbiamo colto nel particolare (e per molti versi provocatorio) approccio di Bourdieu alla ricerca sociologica non solo elementi di interesse accademico ma, soprattutto, la possibilità di guardare alle contraddizioni irrisolte del nostro tempo con uno sguardo allo stesso tempo critico e appassionato. Non a caso abbiamo scelto come motto per il nostro blog proprio la frase (dall’omonimo libro – intervista pubblicato in Italia nel 2004) Il mondo sociale mi riesce sopportabile perché posso arrabbiarmi.
Ci siamo incontrati a intervalli più o meno regolari per confrontare le nostre letture di Bourdieu a proposito dei rispettivi ambiti di interesse: dalla filologia classica alla storia del Risorgimento, dall’educazione alle dinamiche relative alla costruzione dell’opinione pubblica, dal confronto con altri classici del pensiero sociologico all’interpretazione dell’odierna società americana, dai nuovi modelli di giornalismo partecipativo alle forme di violenza simbolica nella Rete.
Giunti a questo punto del nostro percorso, tuttavia, abbiamo sentito il bisogno di allargare il nostro raggio di azione. È nata così l’idea di questo blog che già nel nome, “Officina Bourdieu”, mostra il suo carattere sperimentale. Si tratta, in definitiva, di una sorta di laboratorio che mira a socializzare gli spunti di approfondimento che via via si presenteranno ma, soprattutto, a divulgare il pensiero di Bourdieu oltre la cerchia degli specialisti.
È vero che l’opera di Bourdieu, da questo punto di vista, sta godendo nel nostro Paese di una visibilità via via maggiore presso un pubblico più ampio, anche in virtù dell’impegno apertamente militante che caratterizzò l’ultima parte della sua vita: ma, allo stesso tempo, bisogna ammettere che l’apparente facilità di certe espressioni riconducibili alla sua elaborazione teorica (come i concetti di habitus, capitale, campo, violenza simbolica, dominio maschile etc.) rischia di banalizzare un pensiero in realtà assai complesso, che si è sviluppato in una produzione scientifica imponente (senza contare i numerosi interventi pubblici). Il nostro intento, speriamo non troppo ambizioso, è quello di contribuire alla conoscenza diffusa di questo autore senza tuttavia derogare al necessario rigore interpretativo.
In questo cercheremo di seguire la lezione dello stesso Bourdieu. Nel 1996 Bourdieu non esitò a registrare due trasmissioni televisive con lo scopo dichiarato di «tentare di uscire dai limiti del pubblico che normalmente frequenta i corsi del College de France». E questo allo scopo di denunciare proprio in televisione i rischi che la stessa televisione, a suo avviso, faceva correre alla «sfera della produzione culturale» nonché alla vita politica e alla democrazia, nella speranza che le sue analisi potessero «concorrere a fornire utensili o armi a tutti coloro che, nel loro lavoro con l’immagine e sull’immagine, si battono perché quello che avrebbe potuto divenire uno straordinario strumento di democrazia diretta non si converta in uno strumento di oppressione simbolica» (Pierre Bourdieu, Sulla televisione, 1996). Oggi la Rete, per molti versi, si trova nel medesimo pericolo: minaccia di trasformarsi da ambiente di condivisione e di arricchimento della conoscenza e dell’informazione in spazio colonizzato da populismi e demagogia, in luogo di marketing, manipolazione e conformismo. Contribuire sia pure con un semplice blog di approfondimento come il nostro a mantenere sano l’ambiente (si perdoni la metafora), attraverso le ricerca, la critica, l’argomentazione, in fondo corrisponde a quella idea di sociologia come “sport de combat”, pronta a mettersi in gioco all’esterno dei recinti accademici, in una sorta di corpo a corpo con i dati dell’esperienza concreta, che Bourdieu ha sempre praticato: o, almeno, noi ce lo auguriamo.